
Il diario del nostro viaggio in bicicletta nel deserto dell’Azerbaijan, alla volta della capitale, Baku, dove ci imbarcheremo su una nave per il Kazakhstan.
Si parte, un po’ tardino, dopo un po’ di pulizia delle biciclette. La strada è tranquilla, abbastanza pianeggiante.
Arrivati verso Rustavi il paesaggio cambia completamente e diventa desertico. Rustavi è una città piottosto strana, ci sono solo concessionarie e grandi palazzoni in stile sovietico.
Dopo inizia la nostra ultima salita (almeno per un po’). Le colline desertiche attorno a noi sono bellissime. Poi si ritorna in pianura.
E’ veramente assurdo come in Georgia il paesaggio possa cambiare così, dopo solo una ventina di chilometri da Tbilissi sembra di essere in un altro continente.
Dopo un po’ di chilometri pianeggianti avvistiamo un torrente vicino al quale c’è un bel boschetto di ulivi, è proprio un bel posticino per la nostra casetta!
Siamo a circa 6 chilometri dal confine ma sono già le 20 e non ci va di passare adesso, rischiamo di perdere troppo tempo alla frontiera e di arrivare al buio.
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Dopo più di un mese dobbiamo salutare la Georgia. Prima del confine ci fermiamo a comprare da mangiare, già qui nessuno parla in georgiano e vediamo la prima moschea.
Anche se ci offrono subito della Vodka! In questo periodo c’è il Ramadan (fino al 29 luglio) ma a quanto pare non sembrano rispettarlo molto!

Dopo qualche chilometro arriviamo alla frontiera, facciamo in fretta, alle frontiere quando ci vedono in bici ci fanno sempre saltare la fila! L’ultimo cartello che vediamo in Georgia ci augura buona fortuna in Azerbaijan! Speriamo…
Chiediamo dove possiamo trovare un bancomat, non abbiamo più lari georgiani e dobbiamo prelevare i manat azeri. Ci dicono lo possiamo trovare a soli 40 chilometri da lì!
Questa deve essere l’unica dogana fra due paesi senza un bancomat. Non ci sarebbe problema se non per il fatto che dobbiamo mangiare! Abbiamo fame! Per fortuna, al secondo tentativo troviamo un ristorante dove ci dicono che si può pagare con il bancomat.
Il menù non esiste, ci accorgiamo subito di non essere più in Georgia! Portano Daniele in cucina e gli fanno vedere cosa c’è. Poi ci portano tutto il menu, che in pratica consiste nella solita insalata di pomodori e cetrioli, formaggio, pane, della carne bollita con le patate e un kebab (che sarebbe un salsiccioto di carne d’agnello grigliato).
E il tè, lo portano nella teiera insieme ai classici bicchierini di vetro. Dopo mangiato incontriamo due ragazzi spagnoli che fanno l’autostop verso Baku, anche loro prenderanno la nave per il Kazakhstan.
Partiamo, fa caldissimo, la strada è piatta, con un po’ si sali e scendi ma niente di impegnativo. Ci salutano tutti, ancora più che in Georgia.
Attraversiamo finalmente il paese dove c’è il bancomat, beviamo il caffè più brutto di sempre (ok, non siamo più in Georgia, dobbiamo farcene una ragione e bere solo il tè).
Dopo questo ameno paese, penso dopo una ventina di chilometri incontriamo un altro piccolo fiume, prendiamo la strada sterrata che lo costeggia e ci troviamo in un altro boschetto di ulivi.
Perfetto, non ci speravamo, l’ombra lungo questa strada è cosa davvero molto rara. Cuciniamo una pasta, ne diamo un po’ anche ad un gatto che miagola da una buona mezz’ora.. che miagola da una buona mezz’ora.
Mentre smontiamo appare un signore, deduciamo il proprietario degli ulivi. Dice, credo, che abbiamo fatto bene a dormire lì, che è un bel posticino all’ombra.
Poi cattura Daniele e lo porta a casa sua (che è proprio sopra di noi) e quando torna ha un sacco con almeno 5 chili di mele, pomodori e noccioline.
Ha provato a rifiutare cercando di spiegare che abbiamo già troppo peso in bicicletta ma non c’è stato niente da fare! Bene, cercheremo di liberarcene appena tornati sulla strada principale.
Decidiamo di lasciare la busta ad una fermata dell’autobus, sperando che qualcuno la prenda. Anche se le mele era molto più che acerbe!
Dopo una trentina di chilometri ci fermiamo ad una stazione di benzina per prendere un po’ d’acqua e ne approfittiamo per chiedere se mi danno una gonfiatina alla ruota dietro.
Appena ripartiti buco, o almeno così mi sembra. Daniele è davanti e non sente le mie urla! La mia ruota è completamente a terra e anche cambiando la camera d’aria la pompa è sulla bici di Daniele!
In pratica non posso fare niente a parte urlare fino a che Daniele diventa un puntino.
Si ferma un signore, targa russa, per chiedermi le solite cose (da dove vengo etc…) ma io lo incarico subito di andare a fermare mio “marito” e di dirgli di aspettarmi. Lui va, e io spero abbia capito bene! Aveva capito bene!
Alla fine il problema della bici era il seguente: i geni della stazione di servizio hanno svitato la valvola, gonfiato la ruota, ma non l’hanno più riavvitata. Probabilmente non avevano mai gonfiato la ruota di una bici prima. Comunque, meglio così, è bastato rigonfiare la ruota.
Nel frattempo Vasil (quello con la macchina russa) ci invita a prendere un tè qualche chilometro più avanti, andiamo, lui ci aspetta con la macchina.
In qualche modo comunichiamo (con l’aiuto del nostro dizionario) e poi ci invita a cena a casa sua, dice che è ad una decina di chilometri. Lo seguiamo, i chilometri sono 15, poi 20, e poi non vediamo più la macchina!
Al raggiungimento dei 25 chilometri pensiamo ci abbia abbandonato, bè, poco importa.
Ma al 30° chilometro, vino a Shemkir, riappare! Come sempre, gli automobilisti non hanno la minima percezione delle distanze! Attraversiamo la città, in realtà 16 mila abitanti, ma è il capoluogo della regione.
Alla nostra sinistra c’è un grande parco, con tanto di pista ciclabile all’interno. Tutto è curatissimo, il prato è perfetto. E non mancano, come ovunque qui, le gigantesche foto dell’ex presidente (padre dell’attuale presidente) morto nel 2003, sempre accompagnate da qualche frase che dovrebbe essere una citazione. Sarei curiosa di sapere cosa c’è scritto.
Anche lungo la strada ci sono spessissimo queste foto, all’interno di giardinetti nel deserto e c’è sempre qualcuno che sta tagliando l’erba, o dando l’acqua ad alberelli che altrimenti credo non sarebbero proprio lì. Sono in perfetto stile dittatura populista.
Tornando alla nostra giornata, attraversata la città, arriviamo finalmente a casa di Vasil, dove ci aspettano la mamma, la moglie, un’altra ragazza e quattro bambini. Ma soprattutto, ci aspetta la cena.
Sempre grazie al dizionario riusciamo a parlare un sacco. Vasil vive a Mosca da vent’anni, viene qui dove vive la moglie con i figli in vacanza. Dopo mangiato ci offrono una doccia, non vedevamo l’ora. Montiamo la tenda nel giardino.
La mamma di Vasil vuole a tutti i costi farci dormire in casa ma noi abbiamo paura delle sorprese del mattino, non vogliamo che domani ci chiedano soldi, non si sa mai, e siamo irremovibili sulla nostra decisione di montare la palatka (tenda in russo).

Al nostro risveglio ci preparano la colazione. Vasil vuole portarci a fare un giro in macchina sui monti attorno a Shemkir. Andiamo. I monti sono completamente privi di vegetazione.
Non ci abita nessuno. Incontriamo solo qualche mucca, non capiamo cosa ci facciano lì, non c’è praticamente niente da mangiare. Vasil ci dice che proseguendo il paesaggio diventa bellissimo ma si dovrebbe entrare nel Nagorno Karabaq, il chè non è possibile.
Quindi torniamo a casa, salutiamo tutti e ce ne andiamo.
Fa il solito caldo infernale. La mia bici fa un rumore tremendo, riusciamo a trovare un signore che ci da un po’ di grasso per la catena. Ci fermiamo a mangiare in uno dei “ristoranti” più assurdi del mondo.
E’ un posto abbastanza grande con tanto di gigantesca insegna con tanto di fotografie delle pietanze, che poi sono sempre quelle tre citate prima (carne bollita, kebab e insalata).
Arriva un ragazzo che parla solo azero, proviamo a chiedergli il menu, che ovviamente non esiste (i piatti sono sempre quei tre in tutti i ristoranti quindi non ha senso scriverli) ma qui non ci sono neanche quelli!
Il ragazzo ci porta al banco frigo e ci fa vedere cosa c’è dentro, in pratica niente. Vediamo del formaggio e dei wurstel, gli chiediamo quelli ed un’insalata.
Non facciamo in tempo a tornare al tavolo che il pranzo è servito! Ci ha portato il piatto con i wurstel crudi, direttamente dal frigo e con tanto di pellicola sopra! Stessa cosa per il formaggio.
Il formaggio puzza, e non poco. Ed anche i wurstel non hanno un bell’aspetto. Ci mangiamo l’insalata e lo yogurt mentre il ragazzo ci spara della musica a palla nelle orecchie. Scappiamo. Perplessità.
Arriviamo a Ganja, ci mangiamo un gelato e si continua a pedalare.La temperatura è sempre sui 46°. E’ tardi, vorremmo arrivare sul fiume Kura ma non ce la facciamo.
Al centesimo chilomentro ci fermiamo a dormire in mezzo ad un gruppo di alberelli lungo la strada. Continua a fare parecchio caldo, almeno fino alle 23, addormentarsi non è facile.

Oggi c’è qualche piccola nuvola che ogni tanto copre il sole, i gradi sono “solo” 40. Dopo una decina di chilometri arriviamo al fiume Kura. Vicino alle scale che portano al fiume (al di sotto del ponte sul quale ci troviamo noi) c’è una casetta della polizia.
Esce un poliziotto che ci spiega dove ci possiamo fare il bagno, lasciamo le biciclette lì e scendiamo. Io non posso farmi il bagno, problemi mensili sempre nel momento sbagliato.
Il poliziotto ci osserva dall’alto, ed io osservo lui, non ho molta fiducia. Daniele si fa il bagno e risaliamo, il poliziotto sfoggia un sorriso alla Eddie Murphy e ci invita a prendere un tè.
Sembra proprio che non possiamo rifiutare. Io ho una certa fobia per le divise. Mentre esce a preparare il tè (il bollitore è fuori) ci serve un bicchiere d’acqua che però sa un po’ di fogna… e poi pomodori, cetrioli e wurstel, che ruba dalla borsa del suo collega.
Dopo un’ora riesce finalmente a concludere la preparazione del tè ma arriva una telefonata, pare che il capo stia arrivando e praticamente ci caccia via.
Era veramente buffo, ha parlato per un’ora in azero, l’unica cosa chiara era che odiava l’Armenia e che è originario del Nagorno Karabaq. Comunque, grazie all’arrivo del capo riusciamo ad andarcene. Ci siamo persi una rara ora di cielo nuvoloso.
Vorremmo arrivare con un giorno di anticipo a Baku, il 28 luglio. Soprattutto, vorremmo arrivare il prima possibile al mare. Quindi, dovremmo fare almeno 110 chilometri al giorno. Ma il caldo è micidiale, anche se la strada è piatta.
All’ottantacinquesimo chilometro ci fermiamo a bere qualcosa, io una Fanta, che mi fa subito uno strano effetto. Dopo cinque chilometri mi sento male, mi gira la testa e ho la nausea!
Poco prima avevo avvistato in lontananza un gruppetto di alberi e una stradina sterrata che sembrava portare proprio lì. Proviamo ad arrivarci. Ci troviamo in un bel campetto di melograni, ombreggiato, perfetto. Sembra una magia.
Vicino c’è anche una sorgente utile per lavarsi la faccia, dove Daniele incontra un toro libero, anche lui vuole lavarsi la faccia ma è un toro educato e vedendo che in quel momento l’acqua era occupata se ne va e tornerà più tardi.
Io invece ho la nausea e non riesco a mangiare. Daniele mi tenta con i noodles, ma proprio non ce la faccio. Mi metto subito nella tenda e cerco di dormire.

Notte insonne con vomito annesso. Non ce la faccio proprio a pedalare. Raggiungiamo la superstrada e per fortuna proprio a poche decine di metri c’è un ristorante dove ieri avevamo visto fare sosta tutti i martchroutka che passavano di lì, il chè sapeva di situazione un po’ mafiosa.
Andiamo a bere un tè e riesco a mangiare un po’ di cocomero. Aspettiamo che arrivi qualche bus con destinazione Baku.
Io sto male, la strada è piatta e non c’è molto da vedere. Dopo un quarto d’ora arriva il primo minibus per Baku, chiediamo all’autista se ci può caricare con tutto quanto.
Ci dice di aspettare, prima mangia (la carne bollita non può aspettare) e poi ci pensa. Finito il pranzo ci dice che va bene, carichiamo tutto e si parte.
Deserto a destra, deserto a sinistra. Lungo la strada qualche venditore di cocomeri e meloni che cerca di ripararsi con ombrelloni o all’ombra di qualche alberello, sempre più raro.
Poi arriva il mare, è la nostra destra ma lo intravediamo appena, spesso ci sono lunghe mure tra la strada e il mare. Probabilmente proprietà privata di qualche oligarca.
Ma da quello che si riesce a vedere il colore dell’acqua tende al verde pisello.
Arriviamo all’autostazione di Baku, chiediamo ad un taxista quanto vuole per portarci a casa del ragazzo che ci ospiterà a Baku e ci sparano una cifra assurda, qualcosa come 30 euro. Oltretutto non sanno nemmeno dove sia l’indirizzo.
Controlliamo sul navigatore, la casa è ad 1 chilometro e mezzo in linea d’aria. Si fa in bicicletta, non sto così male da dover pagare 30 euro di taxi. Anche altri signori che sono lì ci dicono che i taxisti sono matti e di andare in bicicletta.
Troviamo subito la via ma il civico è un problema, la via è un susseguirsi di palazzoni sovietici senza numeri civici e senza campanelli. Per fortuna, mentre girovaghiamo avanti e indietro Ismail ci appare davanti.
Il padre stava giocando a scacchi lì da qualche parte, ci ha visto passare e lo ha avvisato. Abita al 9° piano, per fortuna con l’ascensore e in qualche viaggio riusciamo a portare tutte le nostre cose.
Stiamo insieme un’oretta, poi lui e la moglie escono e io me ne vado quasi subito a dormire.
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